Temo si tratti di deformazione "quasi" professionale: quando leggo una notizia come quella sotto riportata, o ascolto al telegiornale gente che inneggia alla pena di morte, vado alla mia scrivania e prendo il mio manuale di diritto costituzionale. Poi ringrazio Dio di essere nata in Italia (non che ci siano particolari motivi per esserne orgogliosa di questi tempi...), e ringrazio i nostri padri costituenti per avere previsto tre principi di diritto penitenziario a cui il legislatore ordinario deve necessariamente attenersi nell'emanazione delle disposizioni che riguardano la specie e l'entità della sanzione, pena la disapplicazione delle norme per incostituzionalità.
Il primo è il principio di proporzionalità della pena irrogata al fatto storico/reato per il quale è prevista: certamente la pena deve avere caratteri di retribuzione, poichè viola l'ordine giuridico costituito, ma la risposta dell'ordinamento alla violazione deve comunque essere, da un lato, idonea al tipo di bene leso e alle caratteristiche dell'offesa perpetrata, e dall'altro, adeguata al tipo e al grado della colpevolezza.
Il secondo principio esprime invece l'esigenza dell'umanizzazione della pena, stabilendo che essa non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: il che significa che l'applicazione della sanzione penale non deve mai ledere la dignità del condannato, nemmeno quando comporti una necessaria limitazione della libertà personale del soggetto.
Infine, colonna portante del nostro sistema penale e baluardo di quel positivismo giuridico che tanto ha permeato di sè la nostra Costituzione, la pena deve avere una finalità rieducativa, intendendosi per rieducazione non l'emenda morale del reo (che attiene al foro interno, del quale, per fortuna, lo Stato si disinteressa), ma il suo recupero alla vita sociale, con eventuale inserimento nel mondo lavorativo e necessaria riqualificazione dei rapporti interpersonali.
La pena di morte contraddice ognuno di questi principi: non rieduca (perchè è irreparabile), non è umana (perchè lede il bene vita, la cui tutela nella nostra carta fondamentale non conosce restrizioni), non ingenera deterrenza (contrariamente a quanto i sostenitori della sua applicazione vogliono far credere all'opinione pubblica), non è proporzionale ad alcun delitto (salvo, forse, l'omicidio - ma in questo caso comunque viene meno il fine rieducativo). E tutto ciò non solo quando a essere colpito da sentenza irrevocabile di morte sia un innocente, ma anche quando la reità sia stata accertata al di là di ogni ragionevole dubbio: non esitono vite di serie A e vite di serie B, vite che meritano di essere al mondo e altre che meritano di essere soppresse.
Di questi principi non c'è traccia nella costituzione USA: come può dirsi civile uno Stato che legalizza l'omicidio? E con quale arroganza può esportare i valori democratici di cui egli stesso è privo? Cosa legittima uno Stato a disporre della vita dei suoi cittadini? Quando un ordinamento si arroga il diritto di vita e di morte su un individuo soggetto alla sua sovranità, siamo fuori dall'ottica dello Stato di diritto: non siamo più cittadini, ma sudditi. Poi ci sta poco da sbandierare le origini illuministiche della costituzione americana, perchè il lume della ragione, in uno Stato che pratica "l'occhio per occhio", mi sa che si è parecchio affievolito in questi tre secoli...
"...giudici eletti, uomini di legge / noi che danziam nei vostri sogni ancora / siamo l'umano desolato gregge / di chi morì con il nodo alla gola / Quanti innocenti all'orrenda agonia / votaste decidendone la sorte / e quanto giusta pensate che sia / una sentenza che decreta morte..." (F. De Andrè - "Recitativo e corale")
Marina
P.S. : nutrendo un profondo e laico rispetto per questo blog e quanti lo frequentano, mi sono attenuta a considerazioni di indole esclusivamente giuridica. Va da sè che per me, cattolica praticante, la questione non si esaurisce al piano strettamente legale, ma comporta implicazioni di tipo religioso, vincolanti quanto (e forse più della) legge. La prima delle quali (implicazioni, intendo) riguarda l'assoluta indisponibilità della vita, la propria e quella altrui, sulla scorta della considerazione che la vita la dà Dio, e lui solo può toglierla.
Quindi per me l'omicidio, che sia reato o sia pena, è inammissibile senza alcun tipo di eccezione. Però la fede è una scelta, la legge no: e una legge che presuma di avocare a sè il potere di decidere su ciò che è inalienabile, contraddice i più elementari principi del diritto naturale. Quel diritto di cui persino gli americani devono avere sentito parlare, qualche volta...
Marina
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Fonte: http://www.corriere.it/
Una vittoria per chi si batte da anni contro la pena di morte. Un tribunale d'appello federale ha annullato la condanna a morte contro Mumia Abu-Jamal. Il detenuto, ex membro delle Pantere Nere, è stato per anni un simbolo delle campagne internazionali contro la pena di morte. Abu-Jamal era stato condannato a morte per l'uccisione di un poliziotto nel 1982.
La decisione della Corte d'Appello di Filadelfia ha l'effetto di costringere l'accusa a presentare di nuovo il suo caso davanti ad una giuria per ottenere una condanna a morte. In caso contrario la condanna a morte contro Abu-Jamal è automaticamente commutata nel carcere a vita.
La vicenda di Mumia Abu-Jamal (vero nome Wesley Cook) è degna di un film. Giornalista e scrittore nel 1969 fu incaricato dell'informazione nella sezione di Filadelfia delle Pantere Nere e per questo era nel mirino dell'Fbi. Divenuto giornalista radio, premiato con numerosi riconoscimenti, Mumia era noto per la sua critica della corruzione della polizia e dei dirigenti politici locali. Nel 1978 denunciò la violenta repressione che colpì la comunità MOVE e, nel 1981, seguì il processo contro il suo fondatore, John Africa, che fu infine prosciolto. Il sostegno a MOVE gli valse però l'ostilità dell'establishment locale e il conseguente licenziamento da una delle stazioni radio dove lavorava. Per mantenere la sua famiglia, Mumia fu costretto a lavorare come tassista di notte.
Il 9 dicembre 1981, Mumia Abu-Jamal fu gravemente ferito nel corso di una sparatoria nel quartiere sud della città, dove aveva appena portato un cliente. Arrestato, fu accusato dell'omicidio di un poliziotto, Daniel Faulkner, assassinato nello stesso conflitto a fuoco. Nel luglio 1982 venne condannato alla pena di morte nonostante l'evidente mancanza di prove e le diverse contraddizioni e violazioni dei suoi diritti. Nel giugno 1999 un vecchio sicario della mafia, Arnold Beverly, confessò a uno degli avvocati di Mumia di aver ucciso Faulkner. La confessione di Beverly non venne tenuta in considerazione.
Da quel momento però intorno al processo e alla condanna di Mumia si è creata una mobilitazione internazionale e Mumia è diventato un simbolo della lotta contro la pena di morte. Tanto che nel 2007 l'attore Colin Firth, questa volta in veste di produttore, ha presentato al Festival internazionale del Cinema di Roma, un film-denuncia dal titolo «In prigione la mia intera vita» che riassume l'esistenza di Mumia Abu-Jamal.