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venerdì 18 gennaio 2008

Obama, una riflessione




Scorrendo sul monitor le immagini di Barak Obama, viene da chiedersi cosa cerchino gli americani in questo giovane avvocato dell’Illinois. Oppure, cosa intravedano in lui i grandi potentati internazionali, palesi ed occulti: forse, quasi le stesse cose. Il che, non significa che domani gli statunitensi saranno felici d’esser governati da Obama. Sempre che vinca, ovviamente. Anche se non vincerà, vale la pena ugualmente di soffermarsi sulla vicenda di questo astro nascente della politica USA che non è, d’altro canto, una scoperta dell’ultima ora. Che gli Stati Uniti siano oramai giunti al redde rationem con se stessi, lo indicano un’infinità di fattori: la crisi di una moneta che è stata per mezzo secolo sicuro ancoraggio per qualsiasi operazione finanziaria, oppure la perdita di gran parte dell’apparato industriale a favore dei paesi orientali. Ancora: lo sberleffo d’osservare il nemico di un tempo – ieri l’URSS, oggi la Russia – risollevarsi dalla polvere e camminare diritta, ed il grande fallimento delle operazioni militari in Medio Oriente.
C’è sempre la “spina nel fianco” dell’Iraq, ma nella campagna elettorale pare ci sia stato quasi un gentleman agreement per non trascinarlo nella mischia. Le notizie che giungono dall’Oriente sono abilmente “anestetizzate” dai media: pare quasi che, l’interesse delle varie fazioni irachene, sia più puntato sulla campagna elettorale americana che sul contrasto interno alle forze d’occupazione. D’altro canto, nessuno spreca cartucce se sa che potrebbero essere – appena dopodomani – risparmiate. L’aria di smobilitazione s’avverte oramai ovunque, dalla Baghdad angosciata dopo anni d’inferno, fino alla Virginia, dove la depressione ha un diverso codice: quello dell’inevitabile sconfitta, di un secondo dopo-Vietnam da gestire.
Curioso che, molti cittadini statunitensi, vorrebbero affidare questa eredità da brivido proprio ad un giovane nero, che fa di nome Barak, Hussein, Obama. Il nome dell’ultimo negoziatore israeliano, quello dell’uomo che impiccarono un anno or sono nella prigione di Baghdad e, per una sola consonante di differenza, il nome del famoso “sceicco del terrore”: che strani scherzi fa la Storia ! Pur appartenente ad una chiesa cristiana, il giovane Obama è cresciuto in Indonesia e, pare, abbia addirittura frequentato una scuola coranica. Ottima preparazione per fare, oggi, il Presidente USA!
Se le vicende internazionali sono più avvertite all’estero, negli USA ha un considerevole peso (com’è ovvio che sia) la politica interna: a ben vedere, s’incontrano parecchie difficoltà nel trovare differenze fra i programmi dei candidati democratici e, con appena qualche “limatina” di unghie, anche con quelli di Mc Cain e di Giuliani. Mormoni e predicatori vari eccettuati, ovviamente.La battaglia è dunque un confronto d’immagine e nulla più: nessuno crede veramente nelle promesse sulla sanità per tutti e su un nuovo gold rush, oppure che lo strapotere tecnologico ed economico cinese svanisca come una Fata Morgana. Gli americani avvertono, sentono il momento di pericolo e cercano – probabilmente – di fare una cosa che ritengono sensata: non affidarsi più alla vecchia via, cambiare radicalmente, a new way. E’ nello spirito della “frontiera”.
In altre parole, sembrano quasi coscienti che il nuovo Cesare non sarà più un Cesare (l’ultimo che hanno provato, non ha dato gran prova di sé): è tardi anche per le alchimie dei Churchill – o forse no – ma di certo non del Churchill del 1940. Quello del ’45, forse.Serve pazienza, tanta pazienza per cercare almeno un atterraggio “morbido”, in un paese che ha giocato troppo con il Monopoli, creando bolle finanziarie e speculative che sono passate da un’amministrazione ad un’altra, che ha visto i salari minimi sindacali (6,5 $ l’ora circa) dilagare ovunque, un paese dove il lavoro lo trovi, ma a fare il lavapiatti o la cameriera in un fast-food.
Un decennio infernale ha visto gli statunitensi pagare l’energia dieci volte tanto (per noi europei, circa sei volte tanto), perdere talvolta la possibilità di pagare l’assicurazione sanitaria e, ciliegina sulla torta, essere infinocchiati con la speculazione dei subprime. Ce n’è abbastanza per avere poca fiducia nel futuro, ed in questi casi non si cercano più le soluzioni “ragionevoli” dei Clinton o dei Giuliani, bensì maghi, taumaturghi e predicatori – oppure, senza sbilanciarsi troppo – giovani avvocati neri dell’Illinois. Ci sono, inoltre, altri fattori interni che sembrano convogliare consensi su Obama, che a noi europei sembrano meno importanti, ma che negli USA sono – stelle o stalle che siano – di prima grandezza.
Leggevo recentemente un articolo di Carpentier de Gourdon dove – con grande sagacia ed approfondita conoscenza storica – narra l’eterno abbraccio/contrasto fra le due Americhe, quella a Nord del Rio Grande e quella a Sud, che pare interminabile, fino al lontanissimo Capo Horn. Eppure, entrambe sono Americhe, anche se quando la citiamo al singolare intendiamo – quasi sempre – gli Stati Uniti. L’ultimo decennio ha visto grandi rivolgimenti a Sud del Rio Grande: una piccola isola dimenticata, nello sprofondare del socialismo reale, ha gettato un pollone che ha attecchito in terraferma e, paradossalmente, in uno dei luoghi più ricchi di petrolio della terra. La pipeline fra Caracas e La Habana è, forse, la più importante arteria per Chavez. Non basta: le alchimie finanziarie di un ministro economico argentino – un tal Cavallo: ma, la finiamo di non prestar attenzione ai nomi? Voi, pronipoti di Caligola, affidereste le vostre fortune a un cavallo? – che sognava di far volare il dollaro fra la Pampa ed il Chaco, portò l’Argentina al collasso economico. L’unica soluzione che a Buenos Aires ritennero sensata, quando si presentarono gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale, fu quella d’accoglierli con un caloroso “vaffa”, affermando che palanche per ottemperare ai debiti non ce n’erano. Se avevano già il biglietto per il ritorno, bene: altrimenti, si facessero venire a prendere.
E poi, Evo Morales, Lula da Silva… la Bachelet …insomma, a parte la Colombia , non c’è più nessuno che ci dia ascolto a Sud del Rio Grande, nessuno che voglia più sentir parlare dei gringo. C’è toccato pure di “ritoccare” un poco le elezioni messicane, altrimenti vinceva quel maledetto castrista di Obrador, e la partita finiva ancor prima di cominciare. Per osservare il mutamento dell’America Latina, possiamo fare una semplice constatazione: l’11 settembre 1973, quando fu ucciso Allende, l’unico paese che non aveva un governo pienamente supino ai desideri statunitensi (a parte la solita Cuba…) era il Cile. Con la mentalità e gli schemi della guerra fredda, il legittimo governo cileno fu liquidato in un amen, bombardato – ironia della sorte – proprio da quei Mig-21 che l’URSS aveva prontamente fornito alle forze aeree cilene, per renderle indipendenti dalle forniture USA. Trentacinque anni dopo, solo Bogotá continua ad inviare i suoi ufficiali ad addestrarsi nei campus militari statunitensi, e la presenza militare di Washington è praticamente sparita a Sud del Rio Grande.
Così, al NAFTA (l’accordo di cooperazione economica guidato dagli USA) s’è sostituito il MERCOSUR, gestito direttamente dai paesi centro e sudamericani. Anche qui, notiamo che la scelta del nome fu infelice: quale auspicio trarre da un simile acronimo, con i prezzi odierni del gasolio?Tutto ciò parrebbe appartenere soltanto alla sfera della politica estera, e invece ha degli importanti risvolti interni, che toccano – in qualche modo – il candidato Barak Hussein Obama. La tradizionale suddivisione, che è sempre stata proposta per gli USA, è quella dei paesi ad Est o ad Ovest delle Montagne Rocciose, oppure le “cinture” agricole del grano, del mais e del tabacco, seguendo i paralleli. Mai nessuno avrebbe pensato ad una suddivisione diagonale: eppure, se osserviamo la composizione sociologica degli USA, oggi potremmo suddividere il paese fra chi sta a Sud-Ovest di una immaginaria linea che collega la Florida all’Oregon (sopra San Francisco) e chi, invece, abita la parte a Nord-Est.
Man mano che ci si avvicina al vertice di San Diego, oppure ci si allontana, cresce o decresce la percentuale di popolazione d’origine ispanica che vive oramai stabilmente nel Paese. Si tratta di un fenomeno migratorio che ha caratteristiche assai diverse da quelli europei: emigranti che vanno a vivere in città “yankee”, le quali portano nomi come San Diego, Los Angeles, San Antonio, San Francisco, Corpus Christi, Mesa, Las Vegas…Nell’ultimo secolo, la concomitanza fra la potenza economico/militare degli USA, ed una demografia in espansione, fermarono al Rio Grande la sempre presente pressione demografica che giunge dal Sud, causata dalla maggior prolificità latina. Oggi, entrambi questi presupposti non esistono più: l’America WASP (White Anglo Saxon Protestant) è sempre meno reale. Certamente la si ritrova nel Massachusetts o nel Rhode Island, ma in California le due etnie sono oramai equipollenti, considerando anche una notevole immigrazione asiatica. E un governatore austriaco.
La politica di Bush si è dimostrata fallimentare anche in questo settore: inutile costruire muri lunghi migliaia di chilometri, che finiscono per “fare acqua” da tutte le parti. I grandi flussi migratori – la Storia insegna – sono inarrestabili ed incomprimibili, e questa è una lezione anche per la vecchia Europa. I maggiori network statunitensi – più pragmatici – hanno semplicemente creato molti canali espressamente dedicati alla popolazione ispanica.Così, paradosso dei paradossi, città che portano nomi latini tornano ad essere colorate da lingue latine, proprio nei luoghi dove, la superiorità della cavalleria USA e degli obici Dahlgren, s’imposero sulle truppe del generale di Santa Ana. Come intercettare i consensi della parte ispanica della popolazione statunitense, oramai stabilmente residente nel paese, che lentamente acquisisce la cittadinanza e che, domani, potrà diventare l’ago della bilancia negli equilibri interni?
Non esistono politici di prima grandezza d’origine ispanica, e forse sarebbe azzardato (e controproducente) presentare un simile candidato. D’altro canto, nel melting pot statunitense, non è assolutamente certo che gli italiani votino un italiano, i neri un nero, ecc. La figura di Obama sembra incarnare una sorta di american dream “cucito” per i neri: senza ricorrere a penose operazioni di lifting – come Michel Jackson – il nerissimo avvocato dell’Illinois si presenta così com’è, con la sua strana vita trascorsa prevalentemente all’estero, ma anche con la sua laurea ad Harvard. Ecco allora che la figura del giovane nero vincente può, nell’immaginario dei nuovi immigrati, rappresentare una sorta di possibile, futuro punto d’arrivo per tutti: la riedizione dell’american dream, nella versione per i diseredati. Siano essi neri, asiatici od ispanici.
Obama gioca poi, contemporaneamente, su due tavoli e li sa interpretare bene: se, da un lato, ha saputo raccogliere più fondi elettorali di Hillary (che gli consentono una “macchina elettorale” tradizionale), dall’altra è un candidato – se non proprio “tutto Web” – almeno “prevalentemente Web”. E, questo, è un dato che dovrebbe far riflettere anche in Italia.Inoltre, Barak non appartiene alle grandi dinastie della politica USA – paradossalmente, la Clinton potrebbe pagare il legame troppo stretto con l’establishment, ed essere (ricordiamo che, là, stanno giocandosi quasi tutto sull’immagine) “accomunata” alla dinastia Bush – e questo apre ad Obama una serie di “porte” che altri non possono aprire. Ricordiamo quanto poco giovò, a “mollaccione” Kerry, gloriarsi di quelle iniziali – J.F.K. – quasi fossero un mantra da recitare per sconfiggere Bush. Di là dei brogli e del potere del Presidente in carica, quelle iniziali gli preclusero di contendere a Bush gli stati delle pianure centrali, quelli più tradizionalmente repubblicani.
Sappiamo, però, che il sistema elettorale statunitense è facilmente “permeabile” alle intrusioni esterne: sin dalle primarie, dove contano soprattutto soldi, appoggi ed alleanze, fino allo scontro finale, dove entrano in gioco le infernali macchinette della Diebold. E’ però altrettanto vero che gli Stati Uniti non possono essere paragonati all’Ucraina o alla Georgia: un risultato elettorale può essere abilmente pilotato, anche ribaltato, ma quando la situazione è abbastanza vicina all’equilibrio. Inoltre, questa volta hanno poche possibilità di rientrare in gioco le grandi “dinastie”: in un certo senso, anche i poteri forti (e, talvolta, occulti) devono fare i conti con quel che passa il convento.
Sul potere dei grandi gruppi economici, sui vari think tank statunitensi, si è parlato molto: dalle abili regie del vecchio Kissinger – il cosiddetto “gruppo” di Havard – fino agli agrarians del Sud. E’ indubbio che importanti personaggi del sistema abbiano appoggiato i neocon – pensiamo a Samuel Huntington – ma non confondiamo quei gruppi con i neocon stessi. New American Century – la “madre” dei neocon – era ed è un gruppo di pressione politica, ma non è perfettamente sovrapponibile agli interessi dei Nashville Agrarians o della lobby delle armi. Possiamo, risalendo la storia dei neocon, giungere fino a Leo Strass ed ai legami con i residui del Terzo Reich (la nota vicenda Thyssen-Bush…), ma, proprio la spregiudicatezza di fare affari con il nemico in guerra, ci dovrebbe far riflettere che – a quella gente – assai poco importa di nomi, gruppi o sigle. In altre parole, se i neocon sono un cavallo perdente, chi se ne frega dei neocon.
Il che, sembrerebbe confermato dalla strana “defenestrazione” di Wolfowitz dalla Banca Mondiale: quando mai, un potente, viene accusato di una misera questione di raccomandazioni per una collaboratrice (o amante che fosse), fino a cadere nella polvere? Ancora: le pressioni dei militari, al Pentagono, furono così potenti da “disarcionare” Rumsfeld? Oppure, qualcuno assicurò quei militari – che non volevano finire dalla padella nella brace con una guerra all’Iran – che sarebbero stati in ogni modo garantiti? Una sotterranea guerra è andata in scena, almeno dal 2004 in poi, fra la Casa Bianca ed il Pentagono: non si contano quasi i generali deposti (con succose pensioni e posti sicuri in altrettanto redditizie organizzazioni), il tourbillon di cariche ai vertici delle Forze Armate, i frequenti “cambi della guardia” in Iraq, fino alle dimissioni di Rumsfeld, ufficialmente “dovute” per la sconfitta nelle elezioni di mezzo termine del 2006.
L’ultima “cambiale” concessa ai neocon fu la sostituzione di Powell con Condoleeza Rice agli Esteri: dopo, il silenzio dei grandi gruppi di pressione è diventato assordante. Non si poteva far nulla, per un’anatra zoppa che non era riuscita a volare nemmeno quando aveva avuto il controllo d’entrambe le ali ed il vento in poppa: non c’era niente da fare perché non ci si improvvisa grandi statisti, nemmeno se hai alle spalle tutto l’apparato di Nixon/Reagan/Bush Primo Il Vecchio. Oggi, stranamente, emerge un giovane avvocato democratico – che, però, ha studiato ad Harvard – e che raccoglie più fondi elettorali della “patentata” Clinton. Potenza del Web o dei grandi gruppi?
Si può credere che gli USA vogliano voltar pagina – e lo dovranno fare in ogni modo, vista la disperata situazione economica nella quale si trovano – e, probabilmente, anche i grandi gruppi di pressione si sono accorti che è necessaria una sferzata. Ovviamente, questo non migliora le condizioni economiche e strategiche degli USA nel mondo: la guerra in Iraq è sempre una ferita aperta, l’indebitamento – pubblico e delle famiglie – rimane una voragine alla quale è difficile trovare soluzioni. Il dollaro è in picchiata da anni, e la FED non sa più quali pesci pigliare. In una prospettiva di graduale ritiro dai grandi scenari internazionali – che sono costati, in questi anni, una montagna di soldi all’amministrazione USA – lo scenario di un “atterraggio morbido” si può, per lo meno, intravedere.
Tutto ciò costerà, e parecchio: dalla redistribuzione dei contratti petroliferi in Iraq – lo strano “riavvicinamento” di Parigi di qualche mese fa? – alla cessazione degli appoggi “arancione” alle repubbliche ex-sovietiche, fino alle velleità degli Scudi Stellari e dei viaggi su Marte. In altre parole, il ritorno ad una fase isolazionista potrebbe essere necessario per distrarre risorse – finora dedicate ai ruoli internazionali – al fine d’irrobustire gli interventi interni: senza i quali, gran parte degli americani rischieranno, nel prossimo decennio, la povertà vera, quella delle grandi recessioni economiche. La figura di Barak Hussein Obama potrebbe essere proprio quel necessario compromesso d’immagine, fra la continuità dell’establishment e le esigenze, pragmatiche ed oramai non eludibili, di un ritorno al sostegno della domanda interna. Dopo un trentennio di politiche liberiste, una nuova fase rooseveltiana.
Una re-interpretazione di Roosevelt, non una riedizione, giacché qui si tratta di gestire (con ben minori risorse!) una fase di contrazione della politica estera, e non un’espansione, come avvenne dopo la Grande Depressione : insomma, finita la fase imperiale, si tenterebbe di “scendere” ad un più credibile Commonwealth di marca statunitense. Cosa, peraltro, che non è assolutamente facile da gestire e, per alcuni aspetti, è persino difficile immaginare. Ma, tant’è, altre vie – per il gigante statunitense – non sembrano essercene: se un vecchio Churchill non è presente nella politica USA, un giovane promettente, abile oratore, preparato ed in grado di coalizzare fra di loro etnie apparentemente lontane e dagli interessi stridenti, può essere l’unica soluzione praticabile.
Forse non è l’optimum al quale aspiravano generazioni di statunitensi, ma è ciò che passa il convento: dovendo proprio trovare, fra i vari candidati, quello che meglio potrebbe ricoprire questo ruolo, egli corrisponde proprio al ritratto di Barak Hussein Obama. Sia per l’immaginario popolare, sia per i poteri forti, abbacchiati e delusi dagli sproloqui di New American Century: fare di necessità virtù è, nei periodi bui, il massimo che ci si può concedere. Ricordo una frase del primo San Francesco della Cavani. Quando Francesco riuscì finalmente a farsi ricevere dal Pontefice, gli spiattellò tutte le sue rimostranze per la corruzione del clero dell’epoca. Un cardinale, chiese allora al Papa se lo dovesse imprigionare, ma il Pontefice rispose, tranquillo: «No, lasciatelo andare fra la gente: riporterà i poveri a noi.»



Questo articolo è proprietà di Carlo Bertani

giovedì 17 gennaio 2008

Fame, piaga senza fine




Fonte: ANSA


La fame divora corpo e mente di un esercito disarmato di milioni di bambini cancellando il loro futuro entro i primi due anni di vita, arrestandone la crescita per sempre e con lei le possibilità di vivere in salute e avere successo nello studio e nel lavoro, gli unici strumenti per affrancarsi dalla prigionia della povertà cui sono stati condannati dalla nascita. Se sono infatti circa 3,5 milioni l'anno i bimbi morti per fame nel mondo (oltre un terzo dei 10 milioni di bimbi sotto i 5 anni che muoiono annualmente), è incalcolabile e molto più alto il numero di quelli che sopravvivono ma con danni enormi e irreversibili perché non si è intervenuti in tempo, nei primi due anni di vita per far ripartire la loro normale crescita corporea, ha spiegato Caroline Fall del Medical Research Council Epidemiology Resource Centre presso l'Università di Southampton in Gran Bretagna sulla rivista britannica The Lancet che questa settimana è dedicata al grave problema della malnutrizione materna e infantile. Eppure con interventi precisi che raggiungano le popolazioni, come supplementazione dei nutrienti fondamentali per la crescita (vitamine principali), circa un quarto di queste morti sarebbero evitate, si ridurrebbe del 36% il deficit di sviluppo corporeo a 36 mesi, si ridurrebbe del 25% la disabilità associata al deficit di sviluppo corporeo. A soffrire di malnutrizione nel mondo sono 178 milioni di piccoli sotto i 5 anni ovvero il 32% di tutti i bambini di questa età, secondo il dato riferito all'ANSA da uno degli autori degli articoli, Robert Black della Johns Hopkins School of Public Health, Baltimora. Il problema si annida più ostile in una ventina di paesi, dove si concentra l'80% dei bimbi malnutriti: Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenia, Madagascar, Nigeria, Sud Africa, Sudan, Uganda, Tanzania, Egitto, Yemen, Afghanistan, Bangladesh, India, Myanmar, Nepal, Pakistan, Indonesia, Filippine, Vietnam. Per farsi un'idea di quante giovani vite si potrebbero facilmente risparmiare, ha riferito Black, basta considerare che solo nel 2005 le carenze di vitamina A e zinco sono state responsabili di 0,6 milioni e 0,4 milioni di morti rispettivamente; che l'allattamento al seno non ottimale invece ha fatto 1,4 milioni di piccole vittime, per non parlare della malnutrizione in gravidanza che praticamente 'arresta' lo sviluppo intrauterino portando a milioni di nati sottopeso e gravemente sottosviluppati. Forse il quadro più scioccante viene dall'analisi compiuta dalla Fall sull'associazione tra malnutrizione materna e infantile e minaccia al capitale umano nei paesi a basso e medio reddito. Semplici indicatori di malnutrizione quali altezza e peso a due anni sono strettamente legati ai successi futuri nello studio e nel lavoro, nonché a numerosi fattori di rischio per gravi malattie. L'associazione più forte è stata riscontrata tra altezza molto sotto la media a due anni e ridotta produttività economica e basso livello di istruzione in età adulta. In sostanza la fame divora il capitale umano di un paese già entro i primi due anni di vita. Per questi bambini poi c'é un futuro di malattie e disabilità e per le femminucce ci saranno anche problemi di fertilità e probabilità di partorire bimbi sottopeso. "Il danno sofferto nei primissimi anni di vita per malnutrizione quindi - ha dichiarato la Fall - porta a menomazioni permanenti e minaccia le future generazioni. Interventi adeguati, quindi, non solo porterebbero benefici in termini di salute, ma anche a livello di istruzione ed economico per i paesi".

Mala Vista Social Club

Si dice di tutto e di più su Vista, l'ultimo sistema operativo di Microsoft. Noi vogliamo intervenire sulla questione indirizzandovi ad un paio di siti interessanti. Cliccateci, leggete e valutate. Personalmente LA RESISTENZA non usa e mai userà Vista.

Clicca sui seguenti link:
Sito delle Iene:

Sito di Linux:
http://www.openlinux.eu/content/view/33/38/

Mastella indagato




Navigando in rete abbiamo scoperto un sito tutto anti-Mastella. L'indirizzo è il seguente: http://www.mastellatiodio.blogspot.com/


E ora i fatti (fonte ANSA):


Il ministro della Giustizia Clemente Mastella è indagato nell'ambito dell'inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere su un presunto giro di affari e favori. Il guardasigilli si era dimesso stamattina in seguito agli arresti domiciliari per sua moglie, Sandra Lonardo, presidente del Consiglio regionale della Campania, accusata di tentata concussione. Il Gip ha emesso 23 ordinanze di custodia - quattro in carcere e 19 domiciliari - e tre sospensioni contro politici e amministratori regionali. Tra i destinatari, due assessori della Regione Campania, alcuni consiglieri dell'Udeur, il sindaco e il prefetto di Benevento, il consuocero dei Mastella. Alla Lonardo si contesterebbe una nomina nell'ospedale di Caserta. Mastella aveva annunciato le dimissioni - poi confermate, nonostante che Prodi, ringraziato per la fiducia, le avesse respinte - parlando alla Camera. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti, riferendo al Senato, gli ha espresso la solidarietà di tutto il governo. Solidarietà pressoché unanime anche da maggioranza e opposizione.NOTIFICA A MEZZO STAMPA? E' GIALLO C'é voluta mezza giornata, dalle 8:35 alle 14:30, perché la notizia degli arresti domiciliari per Sandra Lonardo Mastella arrivasse ufficialmente alla diretta interessata, cioé con una pattuglia di carabinieri che portava l'ordinanza firmata dal giudice di Santa Maria Capua Vetere. Nelle sei ore precedenti, che per la presidente del consiglio regionale della Campania e moglie del ministro della giustizia erano stati disposti gli arresti domiciliari era solo un'indiscrezione giornalistica. Battuta dalle agenzie di stampa, ripresa da giornali radio e Tg, commentata da politici di primo piano, l'indiscrezione aveva già causato le dimissioni del ministro guardasigilli, respinte dal presidente del Consiglio. Il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Mariano Maffei, assediato dai cronisti, si era limitato a precisare che "nessun provvedimento è stato notificato", "se c'é violazione del segreto, l'autore sarà perseguito penalmente". Per il ministro Mastella, stando alle persone che gli sono state vicine, si è trattato di un risveglio burrascoso. Subito dopo aver saputo la notizia degli arresti domiciliari alla moglie, il ministro ha convocato a casa sua i collaboratori più stretti. Accantonato il discorso sullo stato della Giustizia, che avrebbe dovuto leggere alla Camera dei Deputati (e nel pomeriggio al Senato) e che poi è stata solo depositata, Mastella ha scritto di getto a penna il duro intervento con il quale ha annunciato le sue dimissioni. Riversato su computer portatili, il discorso è stato poi stampato in alcune copie e solo in un secondo momento duplicato per i giornalisti di tutte le testate. Il cambiamento di programma ha fatto saltare la presenza del Guardasigilli alle 9 nella sede del ministero per il giuramento delle agenti di polizia penitenziaria. Intanto nei palazzi della politica sono cominciate a circolare le voci di dimissioni. A parlare esplicitamente del' ipotesi, intorno alle 10, è stato al Senato il leghista Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia. Mastella, atteso alla Camera alle 10:40, arriva con un po' di ritardo poco prima delle 11 e anche alcuni deputati parlano di dimissioni. Pochi minuti dopo il ministro "getta la spugna". A Ceppaloni, nel frattempo, Sandra Lonardo continua a rimanere all' oscuro del provvedimento che la riguarda. Poco dopo le 9:30, già attorniata dai cronisti, dice di non sapere nulla. Alle 11:30, con accanto il suo avvocato Titta Madia, ribadisce: "Sono ancora una donna libera". Passano meno di due ore e alle 13:30 il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Mariano Maffei, dice: "Nessun provvedimento é stato notificato alla Mastella. Anzi, vorrei sapere chi ha diffuso la notizia". Maffei, che dovrà lasciare l' incarico tra 11 giorni, viene chiamato in causa dal ministro per vicende "che lambiscono suoi stretti parenti": il riferimento rimanderebbe al nipote Sandro De Franciscis, presidente della Provincia di Caserta. Un tempo dell' Udeur, De Franciscis è diventato segretario provinciale del Partito Democratico e nell' ottobre scorso aveva tentato senza successo di conquistare la segreteria regionale. Dopo gli interventi dell' Aula, Mastella si riunisce con i suoi colleghi di partito e di maggioranza. Poi, poco prima delle 14 va a Palazzo Chigi da Prodi. Il presidente respinge le sue dimissioni. Il ministro ringrazia il premier ma spiega: "Ora devo stare accanto a mia moglie. Ogni decisione verrà dopo". Solo mezz' ora dopo, alle 14:30, tre uomini della polizia giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere notificano a Sandra Lonardo Mastella gli arresti domiciliari. Una singolare circostanza contribuisce ad alimentare le voci sulla sospetta fuga di notizie sull' inchiesta. Uno dei provvedimenti di custodia cautelare in carcere emessi dal gip riguarda l' ingegner Carlo Camilleri, suocero di uno dei figli di Mastella, ma l'uomo da ieri sera è ricoverato per un improvviso malore nell' ospedale Rummo di Benevento. Da oggi è piantonato da agenti della polizia penitenziaria.

mercoledì 16 gennaio 2008

Napoli si ribella




“Bande di teppisti senza una strategia complessiva”, ecco come un Ministro dell’Interno ex socialista, e nominato da un governo di centro-sinistra, definisce il malessere degli abitanti del napoletano. E, questo, dopo aver “sentito” il Capo della Polizia Manganelli (basta il nome…) ed aver nominato De Gennaro (Genova 2001?) Commissario Straordinario per la Monnezza. L’Italia è un “paese fotocopia”. Ogni anno che passa, potremmo “riciclare” le notizie di quello precedente: come nel 2007, 2006, 2005…anche quest’anno è scoppiata “l’emergenza rifiuti”. Anche le notizie fanno monnezza. Come andrà a finire? Come tutte le “emergenze” italiane: dapprima si criminalizza chi protesta per il sacrosanto diritto alla propria salute (le cifre sull’incidenza dei tumori riportate da Saviano parlano chiaro), poi partirà una strategia formata da promesse (tante), soldi (a chi di dovere), tanto per rientrare in quell’ordinaria “normalità” che, a Napoli, significa non avere la monnezza che arriva al primo piano. Poi, spegneranno i riflettori delle TV, e tutto tornerà “normale”. Fino alla prossima emergenza.
Intanto, montagne di rifiuti s’accumulano nelle strade, mentre colonne di camion cariche di spazzatura s’avventurano – scortate dalla Polizia – fra paesi in guerra e popolazioni al limite della sopportazione. Dove vanno? Tentano di raggiungere l’ennesima discarica “temporanea”, nell’attesa che si trovi l’ennesimo “sito” per l’interramento definitivo: ovviamente, nell’attesa che sia definito dove e se costruire un inceneritore, un termovalorizzatore o comunque lo si voglia chiamare. Intervistati dai solerti TG nazionali, sudaticci funzionari affermano di “lottare contro il tempo”, “contro gli immobilismi”, “contro le eco-mafie”, contro…insomma, un’emergenza apocalittica! Ora, “un’emergenza” deriva – per definizione – da un evento straordinario ed imprevisto: nessuno prevedeva che, anche quest’anno, avremmo gettato nella spazzatura le bucce dei mandarini e i cartocci del latte?
Negli altri paesi europei, si nominano commissari straordinari per i terremoti e per le alluvioni; nel Bel Paese, alti funzionari dello Stato sono insigniti dell’ambita carica: Commissario per la Monnezza. L ’ultimo ad essere insignito dell’Alta Carica fu Bertolaso. Adesso tocca a De Gennaro. La prossima volta, toccherà ad un Ammiraglio poi, a rotazione, Esercito ed Aeronautica. Tutto l’andazzo è finalizzato ad un solo scopo: trovare qualcuno disposto ad accettare sul suo territorio una discarica, un’amena valletta (meglio se un po’ nascosta) da riempire di spazzatura. Almeno, per quest’anno “tiriamo il fiato”. Le riunioni “politiche” si sprecano: sindaci di quel partito incontrano governatori dell’altro, ma c’è di mezzo qualche “potente” dell’opposto schieramento, e si torna da capo. S’interpella Roma, ma Roma ha ben altro cui pensare…elezioni, fusioni di partiti, grandi riforme istituzionali…no, Roma nomina il Gran Commissario e…che se la sbucci lui, fra le bucce delle patate e delle arance!
Se riduciamo all’osso la questione, siamo come un gatto che deve “farla” ed osserva con circospezione il terreno: dietro a quel cespuglio? Sotto l’albero? Sì, sotto l’albero va bene: un po’ di lavoro con le zampe anteriori – quindi l’atto – e lo zampettare con quelle posteriori per ricoprire il tutto. Anche per oggi, il problema è risolto. Nel terzo millennio del silicio e delle tecnologie spaziali, il Gran Commissario osserva il gatto. E impara.Proviamo a salire di un misero scalino ed osservare altre soluzioni? Per prima cosa dobbiamo sfatare il mito che la spazzatura, in discarica, non inquini: inquina pesantemente e definitivamente il terreno, e non solo. Nonostante ci raccontino che sono state seguite alla lettera le “norme”, e prese tutte le opportune “precauzioni”, vorremmo sapere cosa genereranno montagne di spazzatura interrate dopo decenni di piogge. Nessuno può fermare l’acqua, che s’intrufola, scava, scende: gutta cavat lapidem – affermavano i latini, la goccia scava la pietra – figuriamoci la monnezza.
Risultato: dopo qualche anno, metalli pesanti e molecole d’ogni forma s’espandono ben oltre i confini della discarica e vanno ad inquinare le falde acquifere. La preziosa, e sempre più scarsa acqua che abbiamo a disposizione, dobbiamo prelevarla sempre più lontano dalle città, perché le falde più vicine sono inquinate da Cromo, Mercurio, Piombo e molecole d’ogni tipo sparse a pioggia. Addio agricoltura biologica. Finito? Manco per idea.Le molecole organiche (carta, legno, residui alimentari, materie plastiche, ecc) sono costituite da lunghissime catene formate da atomi di Carbonio. Tutto cambia – panta rei, affermavano già i Greci – ed il Carbonio può seguire due strade per “mutare”: l’unica cosa che non può assolutamente fare è rimanere così com’è, perché la chimica è un continuo mutare, trasformare, rinnovare. Se il Carbonio si lega con l’Ossigeno (tipicamente, una combustione) forma l’anidride carbonica – responsabile dell’effetto serra – mentre se è interrato cambia per fermentazione anaerobica. I batteri, sempre presenti, spezzano le lunghe catene di atomi e formano metano: a prima vista, sembrerebbe una buona soluzione.
Invece no, perché il metano che si forma è difficile da recuperare ed è – per gli usi energetici – di scarsissima entità, mentre – se liberato nell’atmosfera – inquina, e parecchio. Una molecola di metano riflette una quantità di radiazione infrarossa (l’effetto serra) pari a 21 volte quella riflessa da una molecola d’anidride carbonica! Quindi, dal punto di vista dell’inquinamento, le discariche sono la peggior soluzione: incrementano enormemente l’effetto serra ed inquinano definitivamente terreni e falde acquifere. L’altra soluzione è bruciare i rifiuti in appositi impianti, per ottenere la miglior combustione possibile e ridurre il rilascio di prodotti di combustione indesiderati. Qui bisogna sfatare un mito: i termovalorizzatori producono sì energia elettrica, ma è sbagliato pensare ad essi come ad un metodo di produzione energetica. Più seriamente, dovrebbe essere chiarito che sono mezzi per eliminare i rifiuti, dai quali è possibile recuperare un po’ d’energia. La distinzione è importante perché, se pensassimo ad essi come al toccasana della produzione energetica, potremmo cadere nell’errore di generare più rifiuti: tanto ci penseranno i termovalorizzatori!
I termovalorizzatori, però, bruciano il materiale più composito che possiamo immaginare: pur trasformando preventivamente i rifiuti nel CDR (Combustibile Da Rifiuti) mediante complesse operazioni chimico-fisiche, rimane un composto formato da legno, plastica, coloranti, vernici, ecc. All’estero, la tecnologia per bruciare i rifiuti è più avanzata che in Italia, e si riescono ad ottenere rilasci molto contenuti di sostanze inquinanti, tanto che gli impianti sorgono anche in aree urbane. In Italia – e questo è un altro mistero che dovrebbero spiegarci – anche i più moderni impianti sono almeno un paio di “generazioni” indietro rispetto a quelli d’oltralpe. I timori delle popolazioni – quindi – sono pienamente giustificati: perché un sindaco dovrebbe concedere la costruzione di un termovalorizzatore, quando non ha garanzie sul futuro inquinamento?
Discariche e termovalorizzatori sono mezzucci per risolvere il breve ed il medio periodo ma, se vogliamo veramente salire un ulteriore “scalino” e cercare soluzioni radicali, non possiamo che partire dalla “catena” del rifiuto: in definitiva, si brucia ciò che s’immette nella “filiera” del rifiuto. I rifiuti organici naturali (scarti di cucina, ad esempio) non producono inquinanti: il vero problema sono i materiali prodotti dall’uomo mediante la manipolazione chimica. Una cassetta di legno può bruciare tranquillamente: la stessa cassetta, costituita da materiale plastico, è un problema. Qui nasce il problema dei rifiuti: quando s’arriva al cassonetto, la frittata oramai è fatta.
La raccolta differenziata dei rifiuti è ottima cosa, ma è lenta ad affermarsi e sembra non riuscire a superare la metà, forse il 60% della produzione di rifiuti, anche nelle migliori condizioni. Le proposte sono molte: dalla raccolta “porta a porta” (molto costosa) ad un generale abbattimento della quantità d’imballaggi, che formano gran parte dei rifiuti.Dobbiamo, però, sfatare un mito, ovvero il ritorno al trasporto dei materiali sfusi: chi ha vissuto nel mondo dove si rifornivano i negozi con i sacchi di pasta, sa benissimo che quel metodo necessitava di tanta mano d’opera in più per realizzare la distribuzione. In questo senso, la grande distribuzione è un passo in avanti, non indietro: in termini d’efficienza – sia energetica, sia per le ore di lavoro necessarie – il mondo “polverizzato” dei piccoli esercenti condurrebbe a nuovi rincari delle merci. Già oggi è possibile, non ovunque, ordinare direttamente le merci via Internet, e questo è un altro progresso: risparmi di tempo e carburanti. Va da sé che, se si devono rifornire i supermercati con merci imballate (giacché chi acquista compra una confezione, mentre un tempo c’era un addetto che confezionare i pacchi), aumenterà la massa degli imballaggi.
Gli imballaggi sono dunque i materiali che generano più problemi per un loro eventuale uso energetico: enormi masse di materie plastiche, nylon, coloranti. E’ proprio necessario costruirli con queste sostanze? Se i contenitori per il trasporto e l’imballaggio delle merci vengono recuperati, allora possiamo costruirli con qualsiasi materiale, ma se vanno a finire nel cassonetto – quante volte abbiamo notato cataste di cassette per la frutta in plastica accanto ai cassonetti? – sarebbe meglio farli di legno. E per gli imballaggi, non sarebbe meglio utilizzare il cartone? Ancora: è proprio necessario colorare il cartone, cosicché rimane intriso di coloranti chimici che inquinano pesantemente? I sacchetti potrebbero essere di carta, oppure fabbricati con polimeri dell’amido di mais, i coloranti usati potrebbero essere d’origine naturale: certo, forse non si riuscirebbe ad ottenere quel meraviglioso rosa shocking, ma val bene la pena se dopo non si genera diossina!
Ci sono milioni d’interventi per intervenire nella “filiera” del rifiuto: perché non viene proibita la vendita delle batterie (pile) tradizionali, così utilizziamo solo quelle ricaricabili? Se si possono ricaricare anche solo 200 volte, significa ridurre allo 0,5% la quantità di batterie esauste! Idem per le lampadine. Il 5% del petrolio che importiamo non viene usato per generare energia, bensì per usi petrolchimici: sono circa 10 milioni di tonnellate l’anno, il carico di 25 superpetroliere. Con quel petrolio saranno sintetizzati medicinali, materie plastiche, gomme, fibre tessili, coloranti, inchiostri, ecc. Questo mare di composti, in gran parte, finirà in discarica nel volgere di pochi anni. Perché? Poiché la monnezza sta diventando il terminale d’ogni attività umana: senza monnezza, il capitalismo non ha futuro!
Mi sono piaciuti parecchio alcuni passaggi di un articolo comparso sul Web, dal titolo “L'impero della rumenta” di Gianluca Freda, perché metteva il dito proprio sulla genesi della monnezza, sul mal primigenio del problema.Citando Maurizio Pallante in “La decrescita felice” – laddove afferma che “La produzione è un’attività finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve, allo stato di merci” – Freda conclude che “La merce, in quest’accezione, non è altro che monnezza grezza che va raffinata al più presto, affinché si possano ricavare dal prodotto finito i meritati e lucrosi profitti imprenditoriali.” Correttamente, Freda identifica nella monnezza il prodotto finito del lavoro capitalista, perché soltanto dalla distruzione del bene sarà possibile ottenere la vendita di un nuovo bene! Tragico, ma è così.
Se spicchiamo un salto nel tempo di parecchi secoli, troviamo artigiani tessili preoccupati: per i prezzi? Per trovare un acquirente ad una camicia in ruvida lana? No, il problema era avere la lana per filare, per tessere, per confezionare la camicia! Dopo, c’erano stuoli di pretendenti, pronti a scucire monete d’oro oppure a barattare il proprio lavoro in cambio. Per avere più lana, s’iniziò ad acquistarla in posti sempre più lontani, in quantità crescenti, con l’impiego di sempre più risorse, i capitali. Il capitale – e tutto la panoplia dei primi mezzi finanziari, lettere di credito, cambiali, ecc – aveva il precipuo scopo di soddisfare una impellente necessità umana: non crepare di polmonite.
L’interesse bancario, richiesto su ogni prestito, aumentò a dismisura le dimensioni dei capitali originari, tanto che – alla fine del ‘400 – i banchieri fiorentini si permettevano di finanziare le spedizioni nel Nuovo Mondo. Mica per interesse filantropico: per trovare altra lana e spezie, che erano necessarie giacché non erano solo il pepe e la cannella, bensì tutta la chimica e la farmacopea dell’epoca. Finché il lavoro rimase manuale, la quantità d’energia che il “sistema” poteva gestire era limitata dalle masse muscolari di uomini ed animali, ma con l’avvento del vapore aumentò esponenzialmente. Più camicie, più soldi: il problema è che ogni persona può indossare una sola camicia la volta. Ne potrà tenere 50 in un armadio, ma oltre le 50 non si sa più dove metterle. Ecco, allora, che la camicia – per continuare ad incrementare il capitale – deve durare di meno: non c’è altra soluzione.
La scrivania sulla quale ho appoggiato il computer è una scrivania “da soci” (probabilmente da architetto) degli anni ’20: è costruita in quercia, con incastri a coda di rondine e pochi inserti metallici. La pagai 100.000 lire da un rigattiere, la restaurai e la sto usando da molti anni: quando me ne sarò andato, potrà rendere gli stessi servigi a mio figlio, ai miei nipoti, bisnipoti, ecc. Basterà una mano di vernice e un po’ di cera ogni tanto: la mia scrivania è un minuscolo soldatino del movimento anti-capitalista. Se avessi acquistato, ad un prezzo certo maggiore, una moderna scrivania in truciolato, oggi l’impiallacciatura inizierebbe a staccarsi, le gambe ad indebolirsi, i cassetti a perdere i fondi. Accanto ai cassonetti, ci sono spesso cataste di mobili in truciolato: il truciolato è un grande alleato del capitalismo.
Un enorme quantitativo di rifiuti è costituito la mobili: anzi, ex mobili. Per costruire i mobili, deforestiamo immense aree, scacciamo con la forza popolazioni che vi abitano da millenni, trituriamo il legno e lo ricomponiamo con colle sintetiche. Con i pannelli, quindi, costruiamo i mobili. I mobili moderni saranno pure lisci e senza la minima fessura, ma dopo qualche decennio – inevitabilmente – le colle si de-polimerizzano ed i pannelli di truciolato vanno letteralmente in polvere: perché non usare il legno? Un mobile in legno – se protetto dai tarli – può durare alcuni secoli: ne sono testimoni i mobili antichi giunti sino a noi. Curandoli con della semplice cera d’api, i nostri progenitori hanno usato gli stessi mobili per generazioni: certo, ci sono preferenze dovute alle mode od agli stili, ma tutto questo cela soltanto la nostra ansia del dover cambiare tutto ciò che ci circonda, frequentemente, per mascherare la nostra incapacità di cambiare il nostro pessimo stile di vita. Dalla produzione al consumo, tutto deve vorticare celermente per donarci l’illusione della felicità. Effimera.
Ovviamente, il capitalismo alimenta ad arte – grazie alla pubblicità – la sete di mutamento: sei depresso? Comprati un paio di scarpe nuove: per un paio d’ore scaccerai il male ai piedi, osservando le tue nuove zampe sontuosamente calzate. La stessa molla del consumo inconsapevole ci spinge ad acquistare il cartoccio dei pomodori che ha la confezione più appariscente e colorata: nastrini dorati, nylon che riflettono la luce, scritte accattivanti che richiamano paradisi della natura. In realtà, quei pomodori sono probabilmente cresciuti sotto una cappa di concimi chimici e diserbanti, e sono stati raccolti da uno schiavo nero – che oggi chiamiamo “extracomunitario” – per pochi centesimi: nell’estate del 2006, le Forze dell’Ordine scoprirono – in Puglia – una vera holding della schiavitù, con tanto di “caporali” armati che sorvegliavano i “lavoratori extracomunitari”. Peggio dei campi di cotone dell’Alabama.
Se fossimo consapevoli dell’abisso d’infelicità nel quale siamo precipitati, probabilmente acquisteremmo la metà dei prodotti che compriamo: perché non si costruiscono automobili che durano trent’anni? Sarebbe possibile e vantaggioso, sia economicamente e sia per gli aspetti energetici ed ambientali. La risposta è: perché nessuno si terrebbe la stessa auto per trent’anni! Vorrebbe cambiare, non entrare nella stessa “forma” per tre decenni. Ci chiediamo perché ci disturba tanto? Perché quel “cambiare” acquieta la nostra sete di mutamento interiore, perché ci rendiamo conto che stiamo costruendo un mondo alla rovescia: campagne spopolate e città invivibili, ricchi straricchi e poveri strapoveri, felicità effimere e depressioni dilaganti.
Difficile stabilire dove sia iniziato questo circolo vizioso: possiamo soltanto affermare che è perfettamente coerente con i desideri di chi guadagna un euro a camicia, e pare acquietare le ansie di coloro che – se non acquistano una camicia nuova ogni mese – cadono in depressione. Ora, qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto ciò con la politica spicciola: possiamo discutere all’infinito sulla convenienza della raccolta differenziata, sugli inceneritori, sul riciclo dei materiali – ed è giusto farlo – ma se non mutiamo le nostre abitudini – ovvero se non diminuiamo la colossale quantità di beni che consumiamo nei paesi ricchi, senza trovare felicità – saranno soltanto pannicelli caldi per curare un tumore.
Siamo così fessi, stupidi, inconsapevoli? No: c’è chi alimenta ad arte questa tendenza e ci campa allegramente. Ovviamente, chi produce un bene vorrà produrne di più per arricchirsi: la nota teoria dello “sviluppo senza limiti”, che rischia seriamente di mettere in crisi l’intera specie umana, ma c’è chi ha trasformato il rifiuto in un cespite di ricchezza e di potere. Tutti paghiamo la tassa sulla spazzatura. Quanto? Dipende, ma una cifra vicina ai 200 euro a famiglia è vicina alla realtà. Questa tassa (le sole famiglie) genera annualmente un capitale pari a circa 5 miliardi di euro (altri forniscono cifre ben maggiori, ma non ha soverchia importanza). Chi lo gestisce? Gli assessori incaricati di gestire i rifiuti, che si servono d’aziende municipalizzate o private per “risolvere” il problema.
Qui entrano in gioco le cosiddette “eco-mafie”, che non sono eserciti d’individui con coppola e lupara: più semplicemente, sono distinti signori in doppiopetto che ricevono appalti per la gestione della spazzatura i quali, a loro volta, li re-distribuiscono in una jungla di subappalti. Sulla monnezza campa un esercito di camionisti, raccoglitori, funzionari…e su tutti, come un sovrano, regna il nostro assessore che, con una delibera, può cambiare il destino di centinaia di persone. Le quali, ovviamente, mostreranno riconoscenza alle elezioni. Proviamo a riflettere su qualche milione di euro da gestire per raccogliere voti: la spazzatura può anche fare tre volte il giro dello Stivale (difatti, la spediscono in Sardegna, che è proprio dietro l’angolo), basta che alla scadenza elettorale caschi tutta sullo stesso nome! Perché, soprattutto al Sud, la raccolta differenziata non decolla? Poiché manderebbe in crisi il sistema, “l’affare monnezza”. Del resto, la politica-spazzatura, la TV-spazzatura e l’informazione-spazzatura, su cosa potrebbero reggersi?
C’è modo d’uscirne? Senza uno Stato che si riappropri di quei poteri che la cosiddetta “deregulation” ha generato, potremo discutere all’infinito su discariche e termovalorizzatori, ma rimarremo sempre nella m…pardon nella monnezza. E non si venga a raccontare che il problema è solo napoletano; ho visto personalmente intere vallette, al Nord, riempite di spazzatura, che non hanno ripari a valle: prima o dopo, quella monnezza finirà inevitabilmente sulla testa di chi sta sotto. Magari fra cent’anni: e chi se ne frega di cosa avverrà fra cent’anni! Nomineranno un Commissario per le Monnezze Cadenti. Un primo passo verso la decrescita, passa proprio per uno Stato che torni a difendere la salute ed il buon livello di vita della popolazione. Come? Stabilendo, per legge, più tutele sulla produzione dei beni.
Mia suocera ha un frigorifero Bosh che acquistò nei primi anni ’60: funziona tuttora, ed è costruito con un acciaio che ci potreste fare una lama di Toledo. Una cara amica ha ancora un monumentale frigorifero FIAT, che ha attraversato tutte le stagioni della tecnologia ed oggi ha già valore nel mercato del modernariato. E funziona. Ovvio che, quando la concorrenza scivola nel monopolismo, nel cartello dei produttori e lo Stato si estingue, l’interesse generale sarebbe quello di darvi un frigorifero che dura due mesi. Perché, un’auto, deve avere soltanto due anni di garanzia? Se, ipoteticamente (ma conosco situazioni che si avvicinano parecchio all’esempio), dopo due anni ed un giorno si rompe la pompa dell’acqua e si “fonde” il motore? Oppure, il parabrezza – inspiegabilmente – si fessura (“cancro del vetro”, lo chiamano, ma facessero il piacere…), una gomma scoppia dopo poche migliaia di chilometri – eh sì, “capita” – chi vi risarcisce?
L’auto che avete acquistato – quei 20.000 euro, poniamo – per quanto tempo deve durare? Se dopo pochi anni inizia ad andare letteralmente in pezzi (qualcuno ricorda le Alfasud che lasciavano una scia di ruggine dopo pochi anni?), questa è truffa, soltanto che le leggi non la riconoscono come tale. Ovvio, perché andrebbe ad intaccare il comma numero uno: tutto deve essere funzionale all’accumulazione del capitale. Il comma due, invece, recita: qualsiasi legge che contrasta con il comma uno è automaticamente abrogata, e deve essere immediatamente gettata nella monnezza. Fine.


Autore: Carlo Bertani



martedì 15 gennaio 2008

Sapienza e fede


Visita: www.laresistenza.it

Dopo l'occupazione dell'aula del Senato accademico nel palazzo del Rettorato della Sapienza e un incontro con il Rettore, gli studenti hanno ottenuto uno spazio dove poter manifestare il loro dissenso alla visita del Papa all'università. La Santa Sede conferma la visita del Pontefice. Benedetto XVI dovrebbe arrivare poco prima delle 11 nell'Aula Magna dopo l'inaugurazione ufficiale dell'anno accademico.
Fonte: Ansa

lunedì 14 gennaio 2008

Di spalle è meglio

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Fonte: adnkronos.it
Città del Vaticano, 13 gen. (Adnkronos) - Benedetto XVI ha scelto di celebrare questa mattina la messa per il battesimo di 13 bambini nella Cappella Sistina tornando all'antico, ma fino a un certo punto. Ratzinger ha svolto il rito dall'altare posto tradizionalmente sotto l'affresco michelangiolesco, ha dato le spalle ai fedeli in diverse occasioni, ma ha seguito il messale di Paolo VI e la messa è stata in italiano. Insomma un mix fra ''pre'' e ''post'' Concilio, quasi una sintesi della visione liturgica del Papa che ha voluto interpretare la riforma liturgica promossa dal Vaticano II non come una rottura rispetto alla tradizione precedente valida del resto per molti secoli, ma come un elemento di aggiornamento che andava letto in continuità con la storia precedente della Chiesa. Nota è poi l'avversione di Ratzinger per quelli che egli stesso ha chiamato ''eccessi'' nell'interpretazione moderna della liturgia: aspetti musicali, una certa libertà di comportamenti del sacerdote e dei fedeli, tutto ciò insomma che porta, secondo il Papa, lontano da quella profonda spiritualità, scevra di elementi esteriori, con la quale deve essere vissuta la messa.A spiegare la natura del rito odierno era stato lo stesso Ufficio liturgico del Papa con una nota specifica: ''Si è ritenuto di celebrare all'altare antico per non alterare la bellezza e l'armonia di questo gioiello architettonico, preservando la sua struttura dal punto di vista celebrativo e usando una possibilità contemplata dalla normativa liturgica. Ciò significa che in alcuni momenti il Papa si troverà con le spalle rivolte ai fedeli e lo sguardo alla Croce, orientando così l'atteggiamento e la disposizione di tutta l'assemblea". Tuttavia, precisava il testo, la celebrazione ha il consueto svolgimento: viene infatti impiegato il messale ordinario, ovvero quello introdotto da Paolo VI dopo il Concilio Vaticano II.Durante la celebrazione Benedetto XVI ha perso l'anello del Pescatore che porta sempre al dito. L'anello - che è uno dei segni della dignità pontificia - gli è scivolato sul tappeto vicino all'altare. Al piccolo incidente sarebbe seguito un momento di imbarazzo quindi il cerimoniere pontificio, mons. Guido Marini, sarebbe riuscito a trovarlo e a riconsegnarlo a Ratzinger.

Vecchie novità


ROMA - Settimana cruciale, quella che si apre, per l'intesa sulla legge elettorale. Silvio Berlusconi "spera ardentemente" che Walter Veltroni, al vertice di maggioranza di domani, riesca a domare i piccoli in rivolta di fronte alla dichiarata vocazione maggioritaria del Pd. Non ci saranno, si apprende, concessioni sulla soglia di sbarramento (fissata non sotto al 5%) ma al massimo la disponibilità a risolvere per 'via politica' (per esempio con patti federativi) la questione della sopravvivenza delle diverse identità. Linea dura anche con i partiti 'medi' e quindi con i pasdaran del proporzionalismo, ai quali non si intenderebbe concedere né voto disgiunto né assegnazione nazionale dei seggi, ponendo invece il 'premietto di maggioranza' come strumento necessario ad evitare che una qualsiasi forza media possa porsi come ago della bilancia. Pd e Forza Italia, pur senza sbandierarlo ai quattro venti, vanno al confronto in posizione di forza: in alternativa all'intesa ci sarebbero comunque gli effetti bipartitici del referendum, con il pronunciamento della Consulta a metà settimana che tutti si attendono di ammissione. Ma intanto, mentre martedì al Senato riprende anche il faticoso cammino della bozza Bianco, a tenere banco oggi è soprattutto uno dei paletti posti da Berlusconi per il via libera alle riforme. Oltre a dire che quello francese è un buon modello e bocciare quello tedesco, il Cavaliere spiega che il frazionamento va combattuto con uno sbarramento assolutamente superiore al 5 per cento e avverte: "Non potremmo trattare con forze politiche che mettessero in atto una decisione criminale come il disegno di legge Gentiloni". Una voce dal sen fuggita? A sentire Sandro Bondi parrebbe di no. "E' vicino l'accordo sulla legge elettorale con l'opposizione - denuncia infatti poco dopo il coordinatore azzurro - ma chi lo vuole non può allo stesso tempo volerne colpire il leader. Questo è nella testa non delle forze più responsabili della maggioranza ma di Romano Prodi, che vuol far saltare l'intesa". Romano Prodi insomma, alla testa dei piccoli, vorrebbe affossare l'accordo e per questo proprio Palazzo Chigi avrebbe fatto riferimento alla riforma del conflitto di interessi. Il portavoce di Silvio Berlusconi Paolo Bonaiuti smussa: "Nel tentativo di dare al nostro Paese un sistema di voto ampiamente condiviso, nessuno ha mai tirato né tirerà in ballo il progetto anti-Mediaset del ministro Gentiloni, che rimane un obbrobrio giuridico e un'operazione distruttiva". Ma intanto per il Pd aveva parlato il vice di Walter Veltroni, Dario Franceschini: "Non ci può essere nessuno scambio tra le cose che ci siamo impegnati a fare per il Paese" e tra queste la riforma Gentiloni "e il dialogo sulla legge elettorale". "Continueremo, mentre dialoghiamo sulle regole con l'opposizione - aveva chiarito Franceschini - ad impegnarci per attuare il programma di governo, che come è noto prevede la riforma Gentiloni". Parole necessarie a sedare la ribellione nell'Unione, dove le parole di Berlusconi erano state definite un diktat inaccettabile mentre la sinistra, con un tam-tam telefonico, si accordava per chiedere la immediata calendarizzazione del conflitto di interessi. "Non si può pensare di riscrivere la legge elettorale senza Berlusconi, senza il partito che con il nostro è il più grande d'Italia" aveva detto al mattino il leader del Pd Walter Veltroni. Ma dopo le parole del Cavaliere, erano in molti a parlare di "ricatto" (Barbi e Monaco, Pd; Angius, Socialisti), mentre i Verdi, con Angelo Bonelli, pretendevano che fosse "subito approvata la Gentiloni" e il Pdci, con Pino Sgobio, diceva "basta agli inciuci". "La legge televisiva - chiariva a sera lo stesso ministro per le Comunicazioni Paolo Gentiloni .- deve andare avanti, così l'intesa sulla legge elettorale, ma su piani ben distinti". Alleanza Nazionale intanto, si mostrava soddisfatta del ritrovato feeling con Silvio Berlusconi sul no al sistema tedesco e sul sì a quello semipresidenziale francese. "Intervento doppiamente positivo", elogiava Gianfranco Fini, mettendo in agenda un incontro con il Cavaliere sulla legge elettorale già per i prossimi giorni.

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