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lunedì 8 settembre 2008

"Un giorno perfetto" - F. Ozpetek



Faccio una doverosa premessa: io amo Ferzan Ozpetek. Potrebbe propinarmi il più commerciale degli spot pubblicitari e lo stesso considererei la sua mano dietro la macchina da presa un'opera d'arte. Per me è un genio assoluto: è capace di rendere ogni inquadratura un dipinto, rendendo partecipi della storia persino le pareti e le pietre e riesce a far recitare tutti con un'inventiva fuori dal comune (a chi poteva venire in mente di far parlare la pugliesissima Cettina di "Un medico in famiglia" con quel favoloso accento nordico???).
Ozpetek fa lieve il dolore anche quando è grave, e il suo sguardo sulle situazioni e sui personaggi non ha mai la bidimensionalità del qui-ora, ma acquista lo spessore dell'oltre e dell'altrove. Non è il tipo di regista che ama rassicurare lo spettatore, ma, al contrario, ne stimola il senso critico e ne sollecita la discussione di sè.
Detto questo, vengo alla cronaca.
...
Multisala Andromeda, stessa sala e pressocchè stessi posti dell'ultima volta. Diversa la compagnia: se sia, questo, uno scampato pericolo o un'occasione mancata, sarà il tempo a dirlo.
Il film comincia in modo inquietante e finisce con un pugno nello stomaco, violento e improvviso.
Mastandrea non dice una parola per i primi venti minuti: parla con la sua faccia provata dal dolore di un abbandono che è incapace di incanalare in una direzione non distruttiva, parla con inquadrature fatte di profili tagliati e repentini lampi di abbaglianti nella notte, parla con quella tanica di benzina che per tutto il maledetto giorno perfetto dondola nella macchina, incastrata tra il posto passeggero e il sedile posteriore. E dice di un padre di famiglia che si fa mostro per ferire la madre dei suoi figli e non sopravvive al suo stesso sangue nemmeno per il tempo di provare un po' di nausea di sè, una Medea in giacca e cravatta che non trova redenzione in nessun gesto e in nessuna parola, una vittima di se stesso che ha bisogno di diventare carnefice per avere ragione del suo fallimento come uomo, marito e padre.
Molto brava anche la Ferrari, perennemente col kajal sciolto, a sottolineare i contorni di uno sguardo ancora languido malgrado il trauma della separazione e la fatica della gestione quotidiana della famiglia in un mondo di precariato e frenesia metropolitana.
Nel mezzo una serie di personaggi tutti in qualche modo legati tra loro da una sofferenza sottile e latente, mai disperata, sempre trattenuta, tutti alle prese con un qualche genere di perdita o di insoddisfazione.
Però... però a questo film manca la magia de "Le fate ignoranti", e manca il senso tragico della vita che permea di sè ogni scena di "Saturno contro", manca la caratterizzazione ben definita dei personaggi minori, che è un po' il marchio di fabbrica del regista italo-turco.
Non so se dipenda dal fatto che il canovaccio su cui la traccia è imbastita non è un'idea originale di Ozpetek (il film è tratto dal romanzo di Melania Mazzucco): può essere che questo abbia influito sulla fluidità dello svolgimento, che risente di un andamento spezzato, a scatti, poco armonico, come una sovrapposizione non sempre coerente di situazioni, un puzzle i cui frammenti non combaciano perfettamente.
O, forse, è proprio in questo non combaciare il significato più profondo di tutta la storia: una trama il cui ordito ricama un disegno altro e compie un percorso non circolare nè compiuto, che sbava ma non straborda e pietrifica nell'attimo esatto in cui ferisce.
...
Marina

1 commento:

LR web STAFF ha detto...

Ottimo pezzo, Marina. Avanti così!

Apture

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